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Arte in cucina: nulla di nuovo
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From: lore luc  (Original message) Sent: 10/03/2012 07:46

Se entri in cucina conosci te stesso

Nell’era degli chef diventati maître-à-penser, due libri ne smitizzano l’arte: grandi tecnici, non geni rivoluzionari

Come diffido dei troppo magri, diffido di “C chi non ama la tavola. è così spesso l’unico punto di contatto con gente che ha idee politiche, filosofiche e spirituali diverse dalle tue», sostiene giustamente Luca Iaccarino in Dire Fare Mangiare. Un libro di storie gustose (Add editore). La tavola esprime, ma soprattutto ci esprime: il cibo che mangiamo ci tradisce ma va anche e soprattutto interpretato, per capire chi siamo. Iaccarino propone un’esplorazione che parte da uno dei più celebri ristoranti del mondo, passa per una sapida trattoria e dopo una scorribanda nella Vucciria di Palermo approda a una cena preparata in casa. Se da Ducasse a Montecarlo Iaccarino va senza preconcetti, con la mente e la bocca aperta, alla taverna di Fra’ Fiusch a Revigliasco lavora tre giorni in cucina. Imparerà che l’arte è molto più sinonimo di fatica, improperi e orari folli, che casacca candida e sguardo maliardo di molti chef diventati maître-à-penser, in questo presente che sta facendo della cucina un idolo.

«Il meilleur ouvrier de France è sempre un grande tecnico, ma non necessariamente un genio, un innovatore, un inventore, uno che rivoluziona la storia della gastronomia», fa eco Michel Onfray dal suo I filosofi in cucina. Critica della ragion dietetica (traduzione di Giovanni Bogliolo per Ponte alle Grazie). Gastronomo convinto e tendente all’eccesso, Onfray ha scritto questo trattato di diet-etica poco dopo essere sopravvissuto a un infarto, a 28 anni. Il cuore era stato compromesso da un’alimentazione non propriamente equilibrata, e forse per compensazione il filosofo si è conquistato la fama presso il grande pubblico con questo libro che esce solo oggi in Italia, dove tenta un percorso tra filosofia e apparato digerente. Diogene, Nietzsche, Sartre, Rousseau, Feuerbach, Kant: tutti continenti nei propositi, tutti smodati all’atto pratico. Soprattutto nel bere. Kant era - prevedibilmente metodico nei suoi pasti, ma capace di spazzolarsi «tre portate, formaggio e burro. Aveva un appetito robusto e gli piacevano molto il brodo di vitello e la minestra d’orzo con i vermicelli... metteva della senape quasi su ogni piatto». Beveva come una spugna, ma questo sembra essere un dato caratteristico di quasi tutta la categoria intellettuale. Sartre, ad esempio, sublimava le sue fobie alimentari ad esempio verso i crostacei, che poi sognava in dimensioni spropositate - annegandole in dosi massicce di alcol.

Al di là dell’aspetto folcloristico, per il quale si va dal polpo crudo di Diogene ai latticini di Rousseau, alla rivoluzione futurista (per le quale la pasta è un «cubo massiccio impiombato da una compattezza opaca e cieca». Garantito che davanti alla sfoglia di Alfredo Russo del Dolce Stil Novo di Venaria Marinetti si sarebbe, è il caso di dire, rimangiato tutto), il saggio di Onfray giunge alla medesima conclusione di Iaccarino, e cioè che non esiste una dietetica rivoluzionaria perché tutto è già stato mangiato. L’invenzione, la cosiddetta creatività che in cucina va tanto di moda (così come l’enigmatico «territorio», che vai a capire cos’è, di preciso) è il più delle volte un’illusione ottica, un flusso di memoria. Il che non significa monotonia, anzi. L’arte della cucina è sottile, profondamente umana, fatta di misura, sfumature e devozione.

Anche per questo, come dice Onfray, non c’è dietetica rivoluzionaria ma non c’è nemmeno dietetica innocente: e non tanto perché una certa etica ci ha insegnato che godere - a letto, a tavola o fra le proprie ricchezze - è un peccato. Piuttosto, perché il cibo che noi manipoliamo, cuciniamo e mangiamo è inevitabilmente specchio di noi stessi, umanità antica e ormai dannatamente smaliziata.



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