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From: enricorns (Original message) |
Sent: 09/10/2012 12:52 |
Aborto, «fare rete» per la vita
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Caro direttore,
rispondo con piacere alla lettera della gentile dottoressa Diegoli pubblicata su "Avvenire". Le problematiche evidenziate, soprattutto in relazione a quanto la sanità faccia in Italia «per preferire la nascita», sono di grande rilievo. Il numero delle interruzioni volontarie della gravidanza è in costante diminuzione, come risulta dai dati contenuti nella Relazione sull’attuazione della legge n. 194, che presenterò nelle prossime ore al Parlamento. Nel corso degli anni è andato crescendo il numero delle donne con cittadinanza estera che fanno ricorso all’aborto, raggiungendo nel 2010 un terzo del totale mentre nel 1998 tale rapporto era di un caso su dieci; anche questa tendenza inizia, però, a mostrare un rallentamento. Non c’è dubbio che la prevenzione sia ancora da potenziare. Al riguardo, il Comitato nazionale di bioetica, in un documento del 2005, ha messo in luce i diversi aspetti da consideare: «L’aiuto alla donna in gravidanza esige profili di intervento diversi e complementari, che coinvolgono dimensioni educative, psicologiche, sanitarie e sociali». I contesti che portano all’interruzione della gravidanza devono essere valutati a tutti i livelli, a cominciare da quello istituzionale e pubblico, per proseguire con quello, assai meritorio, dell’associazionismo, soprattutto quando ci troviamo in presenza di una famiglia di debole condizione economica con già tre o quattro figli che, inaspettatamente, si trova a dover far fronte al nuovo arrivo. Sono situazioni complesse, ma non sempre senza via d’uscita, che richiedono concreta accoglienza e sostegno. Spesso la solitudine è la cosa più terribile e, in questa prospettiva, diviene decisivo l’apporto che i consultori, insieme al Terzo Settore e al volontariato, possono fornire a queste famiglie. Devo ammettere che i consultori familiari non sono stati sufficientemente potenziati né adeguatamente valorizzati, soprattutto in alcune aree del Paese. In diversi casi l’interesse intorno al loro operato è stato scarso. Quella dei consultori resta così una sfida che si deve vincere, realizzando una vera rete di protezione e di aiuto nei confronti delle donne che si trovano ad affrontare una gravidanza difficile. Ma dobbiamo trovare il modo di mettere in rete i consultori familiari insieme con gli altri servizi, sia sanitari che socio-assistenziali, degli enti locali, del Terzo Settore e del volontariato. Senza il binomio sussidiarietà-solidarietà non si vincono sfide così impegnative.
Renato Balduzzi - Ministro della Salute
Esattamente un mese fa abbiamo pubblicato la bella lettera-testimonianza di Antonella Diegoli dedicata ai bambini che potevano non nascere e che invece – grazie a Dio e al «Pronto soccorso emozionale» garantito dagli uomini e alle donne del Centro di aiuto alla vita di Finale Emilia – sono nati in una delle realtà più duramente colpite dal recente terremoto. Lettera, caro ministro Balduzzi, che la chiamava in causa in modo diretto segnalando la necessità di garantire un accesso semplice e diretto al sostegno "per la vita" delle madri che meditano l’aborto. Mi fa piacere che lei ne sia stato colpito e che non abbia dimenticato quell’appello. Ritengo anche importanti e condivisibili le affermazioni di principio che qui accanto lei richiama, così come apprezzo l’onesta (eppure così raramente udita) ammissione di «insufficienza» dei consultori così come sono oggi organizzati in particolar modo «in alcune aree del Paese». Quanto all’idea di «mettere in rete i consultori familiari insieme con gli altri servizi, sia sanitari che socio-assistenziali, degli enti locali, del Terzo Settore e del volontariato», mi sembra la via maestra potenzialmente capace di spianare ostacoli e veri e propri muri alzati ostinatamente contro le iniziative tese a non lasciare sole le donne in difficoltà (morali e materiali) nel vivere l’attesa di un bambino e a consentire loro di «preferire la nascita» alla morte del piccolo. Mi auguro che lei riesca a impostare da subito politiche orientate in questa degna direzione. E che nessuna norma in via di definizione – come purtroppo qualche indizio lascia temere – finisca invece per andare in senso opposto, favorendo pratiche abortive consumate nella solitudine, magari proprio sull’ultima frontiera della banalizzazione della tragedia-aborto, il cosiddetto «aborto chimico» procurato (con rischi documentati eppure sottaciuti) dalla Ru486 e da altre pillole. Leggeremo in tanti, e con ulteriore preoccupato interesse, il nuovo rapporto al Parlamento sull’applicazione della 194 anche alla luce dell’anticipazione sul «rallentamento» della diminuzione degli aborti (ognuno uno di troppo...) che ogni anno vengono procurati nel nostro Paese.
Marco Tarquinio
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In calo gli aborti «Potenziare i consultori»
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Quasi 110 mila aborti in un anno. Oltre un terzo solo tra le immigrate. Un rapporto di abortività pari a 202 interruzioni ogni 1.000 nati vivi. Medici obiettori in lieve calo. E nessun boom dell’aborto chimico: dopo un anno e mezzo dalla sua introduzione in Italia (aprile 2010) la Ru486 è stata usata solo nel 6% degli interventi. Sono i dati più importanti della relazione annuale al Parlamento sull’applicazione della legge 194, preparata dal ministero della Salute. In cui si segnala una lieve flessione, il 5,6% in meno, rispetto all’anno precedente. Difficile comunque riuscire a trovare spunti positivi quando il numero complessivo di aborti, pari a oltre 9 mila al mese, è paragonabile alla popolazione di città come Lecce, Arezzo o Bolzano. La relazione – disponibile integralmente sul sito del ministero della Salute www.salute.gov.it – è realizzata sui dati preliminari del 2011 e i dati definitivi relativi al 2010. I numeri del dramma I dati raccontano dunque che nel 2011 gli aborti sono stati 109.538, meno 5,6% rispetto al 2010 (115.981 casi) e un decremento del 53,3% rispetto al 1982, anno in cui si è registrato il più alto ricorso alla cosiddetta interruzione volontaria di gravidanza (234.801 casi). Il «tasso di abortività» (numero di aborti per 1.000 donne in età feconda tra 15-49 anni), definito come «l’indicatore più accurato per una corretta valutazione della tendenza al ricorso all’Ivg», nel 2011 è risultato pari a 7,8 per 1.000, con un decremento del 5,3% rispetto al 2010 (era 8,3 per 1.000). Il dossier afferma che il valore italiano «è tra i più bassi di quelli osservati nei Paesi industrializzati». Assai più inquietante il «rapporto di abortività», 202,5 aborti ogni 1.000 nati vivi, con un decremento del 2,8% rispetto al 2010. Uno su tre è di una straniera Continua a crescere la quota di aborti di non italiane, che raggiunge nel 2010 il 34,2% del totale, ovvero 38.331 aborti. Nel 1998 la percentuale era del 10,1%. Un aumento legato ovviamente alla crescita della popolazione immigrata nel Paese. Significativo il confronto sul tasso di abortività: per le italiane nel 2009 era pari al 6,9 per 1.000 donne in età feconda, tra le donne provenienti dai Pfpm (Paesi a forte pressione migratoria) è quasi il quadruplo, 26,4 per 1.000. Sulla decisione delle straniere potrebbero pesare diversi elementi: la condizione economica più svantaggiata, la mancanza di una rete familiare di sostegno, la cultura del Paese di origine: la metà degli aborti delle immigrate è di cittadine dei Paesi dell’Est europeo, pari a 19.562. Tra le africane sono stati 6.949, tra le latino-americane 5.551, tra le asiatiche 5.961. Stabile nel tempo il dato sul secondo aborto: 27,2%, lo stesso dal 2006. Anche qui è più basso (21,6) tra le italiane che tra le straniere (38%). Ru486, boom fasullo La relazione per la prima volta riporta i dati sull’aborto chimico, "bandiera" di una battaglia ideologica. L’aborto chimico, solitamente praticato senza ricovero, nel 2010 è stato introdotto dal mese di aprile. In nove mesi ne sono stati praticati 3.836 casi, 426 al mese, pari al 3,3% del totale delle interruzioni di gravidanza dell’anno. Cresce nel 2011, anche se i dati sono solo sui primi sei mesi: 3.404, cioè 567 al mese. Ipotizzabile quindi che a fine anno saranno stati meno di 7 mila, circa il 6% del totale. Indicativo il dato regionale: il ricorso all’aborto chimico, solitamente con dimissioni volontarie in giornata, è appannaggio soprattutto di alcune regioni come Piemonte (1.356 casi), Emilia Romagna (2.271), Toscana (760). Cioè quelle che avevano spinto per la Ru486, importandola quando non era ancora stata autorizzata. In Lombardia, una delle regioni più popolose, sono stati "solo" 444. Cala l’obiezione di coscienza dei medici Da registrare dal 2010 una leggera flessione dell’obiezione tra ginecologi e anestesisti, dopo l’aumento degli ultimi anni. I ginecologi sono passati dal 58,7% del 2005, al 71,5% del 2008, al 69,3% nel 2010. Analoga contrazione tra gli anestesisti, negli stessi anni: dal 45,7% al 50,8%. Cresce invece tra il personale non medico: dal 38,6% nel 2005 al 44,7% nel 2010. Percentuali superiori all’80% tra i ginecologi principalmente al sud: 85,2% in Basilicata, 83,9% in Campania, 85,7% in Molise, 80,6% in Sicilia, come pure a Bolzano con l'81%. Consultori da potenziare La relazione introduttiva, firmata dal ministro della Salute Renato Balduzzi, afferma che «nel tempo i consultori non sono stati, nella maggior parte dei casi, potenziati, né adeguatamente valorizzati». Si conferma quindi «la necessità di una maggiore valorizzazione dei consultori familiari quali centri primari di prevenzione» dell’aborto, «in collaborazione con servizi sociali dei comuni e con il privato sociale», con una «specifica attenzione verso i gruppi di donne straniere».
Luca Liverani
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Il risarcimento alla bimba down e la deriva sociale
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Se con una sentenza l'aborto diventa un dovere
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L’aspirazione ad alleviare le sofferenze causate dalla nascita di un figlio disabile è un sentimento naturale. Anche per i giudici, che più volte sono stati chiamati a decidere se il medico, che non ha diagnosticato l’anomalia durante la gravidanza, sia obbligato a risarcire il danno che non si sarebbe verificato se ci fosse stato l’aborto. Poiché i medici sono assicurati contro i rischi professionali, è molto forte la spinta emotiva a "trasformare il dolore in denaro": il medico non pagherà niente perché coperto dalle assicurazioni, le quali non falliranno di certo, e il disabile avrà un sostegno finanziario per tutta la vita. Il problema è come pervenire a una tale soluzione senza tradire la logica giuridica e un sentimento di umanità ben più profondo dell’emozione sperimentabile guardando un "diversamente abile". Bisognerebbe, infatti, considerare la nascita come danno, ipotizzare un diritto a non nascere se non sano. Più radicalmente ancora bisognerebbe affermare che il concepito non esiste, è una cosa e non un essere umano.
È quanto fa la recente sentenza n. 16754 della Cassazione, depositata il 2 ottobre scorso. Ci sarà tempo e modo di smascherare le sue contraddizioni. Le sue difficoltà argomentative si attorcigliano nello sforzo di evitare espressioni come "diritto di non nascere", ma, nonostante la lunghezza della motivazione (76 pagine), tutte le tesi a favore del concepito sono ignorate. Sarebbe bastata una pagina per scrivere 17 volte "diritto di aborto", "diritto di autodeterminazione della madre", "diritto del feto solo al momento della nascita", "concepiti oggetto di tutela e non soggetti di diritto", "dimensione del non essere del nascituro". Persino le parole della sentenza che nel 1975 aprì il varco all’aborto vengono alterate perché quella decisione non scrisse che l’embrione «essere umano deve ancora divenire», ma si limitò a negare al figlio la qualità di "persona". Non arrivò a dire che il figlio non è un essere umano.
Orbene: tutti vorremmo alleviare le sofferenze dei disabili, ma non a costo di negare la loro stessa umanità; non a costo di negare l’identità di esseri umani a tutti i nascituri. Se «l’evento di danno è costituito dalla nascita malformata, intesa come condizione dinamica dell’esistenza riferita a un soggetto di diritto attualmente esistente» (pag. 68 della sentenza), se «la libertà individuale è più importante della dignità umana» (pag. 65), allora la deriva è terribile. Il danno colpisce anche la società e l’aborto diventa un dovere; la condizione dannosa dell’esistenza è eliminata anche dopo la nascita con la morte; il disabile può chiedere il risarcimento non solo al medico, ma anche alla madre che non ha esercitato il suo diritto di autodeterminazione nell’interesse del figlio: anzi, il danno provocato consapevolmente (cioè dolosamente) dalla madre è più grave di quello provocato inconsapevolmente (cioè colposamente) dal medico. Con la motivazione della sentenza qui commentata, la deriva iniziata nel 1975 arriva alla sua conclusione. Salta il compromesso che si pretese di operare tra opposti diritti della madre e del figlio. L’ipocrisia non nasconde più il volto dell’iniquità più estrema. La sentenza del 1975 tentò, almeno, di mantenere la legittimità dell’aborto nella cornice dello "stato di necessità": chi offende un altro non commette illecito se agisce per salvare sé o altri da un reale pericolo proporzionato al male che, per evitarlo, produce. Ma se non usa questo suo legittimo potere nessuno può chiedere un risarcimento perché il danno al terzo non è stato provocato. Dicevano: «L’aborto è un dramma, non è un diritto». Hanno difeso la legge 194 ricordando che l’articolo 1 dichiara la tutela della vita umana fin dal concepimento; sostenendo che l’aborto è consentito in pochi accertati casi e mai per ragioni eugenetiche; proclamando che la norma ha lo scopo di difendere la vita attraverso l’emersione dalla clandestinità e l’incontro della gestante con la società. Sapevamo che questi tentativi sono un inganno, ma ora la sentenza del 2 ottobre rende ancor più evidente ciò che della legge scrisse La Pira («integralmente iniqua»). Alla radice vi è la negazione della umanità del concepito. Tanto più opportuna si rivela, perciò, l’iniziativa europea «Uno di noi»: un grido tanto breve quanto forte che raddrizza le tortuosità della ragione e restituisce verità al diritto.
Nel momento in cui finisco di scrivere questo articolo mi viene trasmessa la relazione ministeriale sulla 194. Essa mi conferma la deriva di cui parlavo. Il ministro Balduzzi pensa di ridurne la dimensione sottolineando il ruolo dei consultori familiari e della sentenza citata del 1975, ma dimentica l’enorme quantità di aborti occulti cagionati con la pillola del giorno dopo e dei cinque giorni dopo. Quantomeno per erigere una seria diga contro la deriva è necessario riconoscere che il concepito è un essere umano a pieno titolo. In caso contrario, non può negarsi che l’ipocrisia e l’inganno sono un supplemento di ingiustizia della legge.
Carlo Casini, presidente Movimento per la Vita
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Quantomeno per erigere una seria diga contro la deriva è necessario riconoscere che il concepito è un essere umano a pieno titolo. In caso contrario, non può negarsi che l’ipocrisia e l’inganno sono un supplemento di ingiustizia della legge. |
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