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Da: primaveraestate  (Messaggio originale) Inviato: 11/11/2012 20:44

“Ma no! Quello non è Tarzan! Quello è Akim!”.

“Chi?”.

“Non ‘Chi’ ma Akim che poi ce l’abbiamo scritto sotto, non vedi?”.

Forse hanno ragione loro.

Forse Tarzan ha finito la sua stagione. è in pensione assieme a Cric e Croc ed a Charlot.

Ma ‘l’amor mio non muore…’, risuona da qualche parte e assieme all’amor suo c’è anche ed ancora questo brivido junglesco, questo sfogo vocale tutto aperto, questo dondolarsi di liana in liana, che in qualche angolino del cervello, ogni tanto, mica sempre!, fa tilt.

Come vuoi che dai quaderni non si urli vendetta?

Come vuoi che Akim, discendente di Tarzan, non si dia pugni sul petto dalla pagina a quadretti con accanto una scimmia che pare antipatica ma non si sa mai?

Arrivato fin quassù dalle interiora della foresta tropicale, ha messo da parte, senza prepotenza ma con sagacia, Zorro, Robin Hood, Che Guevara…

Santo Akim della jungla, protettore dei rachitici, scoliotici, obesi!

Santo Akim della jungla, modello da sognare, padre protettivo!

In questa nebbiolina che sa di fisarmonica, gli Akim, però, non spaventano più nessuno, nemmeno se il loro urlo, per un attimo, riuscisse a coprire il frastuono del traffico cittadino…

Domenico, invece, neanche a tirarlo su con una gru avrebbe lanciato un urlo o si sarebbe battuto il petto. Se lo toccavi un poco tossiva.

E questa è un’altra storia che si intrufola tra i pensieri e le parole d’oggi.

Case popolari, alberi stenterelli che paiono abeti in plastica di Natale: una città tra città.

Domenico, bambino napoletano, timido e alto, con un maxi-cappotto che abbandonava soltanto alla fine di maggio. Frequentava la quinta, allora. Adesso, di certo, farà qualche lavoro. Quando spariva dietro l’angolo si sentiva la sua totale estraneità a questa città, a questo borgo, a questa legge che ti obbliga ad andare a scuola fino a quattordici anni… La cattiveria, quasi, di gente che non cambia se stessa, che ti fa nascere per emigrare, che ti fa crescere in case popolari chiuse alla luce e ai giochi ma, nel contempo, pretende che tu cambi, che ti  migliori, che ti trasformi, che cessi d’essere uno spettacolo vivente della differenza, che cammini senza gobba sulla schiena, con la faccia spaccata da una risata ed il futuro già ipotecato…

La resistenza, quasi, e la malinconia di chi, tutto sommato, è quel che è e, appunto perché non lo accettano così, così vuol restare, come unica possibile affermazione, come unica parola propria, non presa in prestito da altri, così, con l’irruenza fisica, la tosse costante, la mancanza di gentilezza, di tatto, l’odore di cavoli che si appiccica ai capelli e la puzza caratteristica del mangiatore di pasta e fagioli…

Le mamme le notano le differenze. Si vede subito che Nella vale dieci volte Domenico! Si vede subito che Nella si impegnerà nella vita, sarà altruista, politicizzata! Più fosco è il futuro di Domenico. Quello prossimo lo vedrà cercare un lavoro, che lui il fisico ce l’ha!, e portare per un po’ i soldi a casa, in famiglia, trattenendo per sé l’importo del biglietto per lo stadio, poi… Non è mica facile svoltare l’angolo! Poi…

In una classe, in città, Domenico si sente stranito e straniero.

Nella ricordava con precisione che “da noi le lingue parlate sono l’italiano, il lucano, il barese, il napoletano, il friulano, il foggiano, il tarantino e il siciliano”.

Domenico sa bene che nella sua lingua non c’è un vocabolo che indichi il lavoro. Domenico sa che al suo paese si dice ‘faticare’, perché lì non esiste altra esperienza di lavoro. Fatica che snerva, che ti china la testa, ti piega la schiena, ti abitua al ‘sì signore’.

E se vai indietro nella memoria di questi bambini non trovi altro vocabolo, altro verbo.

Qualcuno di loro si è adattato. Farà la talpa. Andrà a tentoni, senza guardare, seguendo il profumo del cibo.

Domenico non ricorda volentieri.

La cornice della sua infanzia erano i giardini pubblici della passeggiata lungo il mare, “dove ci andavano i turisti”, precisa con sguardo di complicità.

Si capisce. I turisti. Quelli venuti da fuori e che hanno i soldi, i fessacchiotti che si fanno infinocchiare.

Aveva quattro anni, Domenico, in quel periodo, a Napoli.

Quattro anni sono pochi, sono un anno di asilo, con la pappa per te, i giochi per te, il cessino per te, ma se non c’è pappa, giochi e cessino, quattro anni diventano tanti, sufficienti almeno per sopravvivere.

“Sai che ci facevo io ai turisti? Prima, con i miei amici, rubavo una cassetta di pesci ai pescatori e poi andavo ai giardini e li rivendevo ai turisti. ‘Signurì’, gridavo, ‘signurì…pesci freschi, pesci freschi!’ e loro compravano. Proprio turisti! Non capiscono niente.”.

Sarà! Ma al maestro vengono in mente immagini di stampo coloniale, con i bravi bianchi europei che gettavano monetine in mare perché i bravi indigeni orientali si tuffassero a prenderle…

Ma Akim no.

Lo dichiara e sottoscrive l’Andrea che Akim è d’altra pasta.

Protegge i deboli e gli indifesi, castiga i prepotenti e i brutti ceffi. Forse forse, se dura ancora un po’ la moda, anche Goldrake si convertirà! Un giorno o l’altro si stuferà dei suoi razzi, delle sue astronavi, e si metterà a fare il nudista in qualche luogo caldo e pieno di palme e scimmie.

Ombre, fantasmi lattiginosi, che sorprendono la mente quando a nulla si crede di pensare.

Ombre, fantasmi lattiginosi, che passano velocemente e non spaventano più nessuno.

Spaventa, invece, spaventa sempre, la fine che ha fatto un bambino di terza alla fine delle vacanze.

La sua famiglia faceva parte di un gruppo di persone le cui case rischiavano di crollare.

Il sindaco aveva promesso una sistemazione in case sfitte, rimaste vuote per la speculazione. Intanto, in attesa, potevano dormire nei locali della scuola.

L’estate era stata corta. Il mese di luglio piovoso come non mai. A settembre bisognava sgomberare perché iniziavano di nuovo le lezioni.

I bambini di queste famiglie erano sparpagliati un po’ ovunque.

Come si fa a vivere in un’aula?

Come si fa a vivere…?

Il maestro stava pagando, in farmacia, il ciucciotto nuovo per Alice, giacché l’altro, consunto e deformato, proprio non sapeva più di niente.

“Ha sentito, maestro?”.

“Cosa? Cosa c’è?”.

“Non ha sentito della famiglia di quei meridionali che stanno a scuola?”.

“Cos’è successo!”.

“Gli è morto, pare, un bambino, fulminato alla stazione…”.

“Cosaaa!”.

“Sì, un bambino che andava a scuola dal Michelotto…”.

Ed il maestro inforca la bicicletta, corre come un matto a scuola, ma non c’è nessuno. La bidella dice che forse sono all’ospedale e che, sì, anche lei ha sentito qualcosa ma non è detto che sia morto, il bambino…

Ed il maestro corre all’ospedale che cessa d’essere il posto dove nascono i bambini; ora è un antro buio dove i bambini muoiono, dove gli adulti si guardano negli occhi senza poter far nulla.

Il vigile conferma che hanno portato il bimbo lì, in rianimazione.

Ma è il medico provinciale che, uscendo, scuote la testa e brontola: “Aveva un buco così nel piede… La scarica l’ha trapassato dalla testa al piede. Povera gente!”.

Il bimbo ora è là, folgorato dall’alta tensione che fa andare il trenino, che unisce la città alla campagna. Il bambino è là, in un suo mondo che nessuno conosce, sordo ai richiami, alle preghiere, alle grida.

Ed è la mamma che ùlula ed i parenti e gli amici che si strappano i capelli mentre il fratello più grande del bimbetto defunto sostiene, da solo, la situazione. Allontana la madre dal cadavere, la trascina lontano dall’ospedale mentre lei invoca il nome del bimbo, il nome degli amici che incontra, il nome del maestro, quasi a chiedergli un aiuto impossibile, quasi fosse una marachella del figlio che bisogna perdonare, sì, ma dopo averlo sgridato.

Anche le case si raggrinzano, impallidiscono.

L’irreparabile è avvenuto.

Non serve a nulla, ora, discutere se era o non era evitabile.

Il bimbo non sente più.

Come il fantasma di Hiroshima, nella poesia di Hikmet, anche lui, forse, si prepara alla sua questua. Anche lui si prepara a penetrare nella memoria della gente, chiedendo un gioco, uno spazio, una casa decente per un bambino, che non urlerà più, state tranquilli!, che non darà più fastidio, no!, che non scarabocchierà più i muri…

Per questo silenzio improvviso che avvolge la scuola non servono corone di fiori. Quando l’ultimo sasso cade sulla bara bianca, anche il pianto si spegne.

La casa continua a non esserci ma il mondo continua a girare.

Ci vorrebbe, per tutti, una gabbia per chiudervi dentro la morte.

Nelle storie di Akim le gabbie servono per catturare i leoni, che verranno liberati dall’eroe mentre i malvagi mostreranno natiche e schiena e suole nell’ultimo riquadro prima del finale.

“Vedi che Akim  non ha i capelli lunghi come Tarzan?”.

“Ho capito, ho capito, ma…”.

Alice mette il disco sul piatto del giradischi.

Sistema la puntina e si prepara a cantare assieme a Manfredi. Il disco sfrigola un poco, si odono le prime note, le prime parole e poi… “Ma Tarzan lo fa… ma Tarzan lo fa…”.

Cosa dovrebbero fare gli insegnanti se pensassero al bimbo fulminato?

Anche per questo sovente eccedono nei calcoli o fanno finta che sia importante conoscere i punti cardinali o che la corteccia più muffosa è quella a nord ed il delta è… mentre l’estuario è…

è anche per questo, ma a che pro?…

 

                              GIANNI   MILANO

 (da "L'alfabeto e i giorni") 1977

 

ma non sempre basta 'tappare' un buco....



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