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Rispondi  Messaggio 1 di 8 di questo argomento 
Da: Peterpan®  (Messaggio originale) Inviato: 28/04/2013 16:08
ma continua a piacermi, o Sid; giusto per farlo leggere a te, agli altri ho fatto due cocomeri così, o forse no, lo pubblicaj 10 anni pha...

La ragazza di Terni

 

Strane, a volte, le comitive. Per via di una o più persone che fanno da 'ponte' si ritrovano insieme a cena ventenni e quarantenni, dove il ponte è il trentenne o la trentenne di turno. Però si parla, si mangia, si beve; in fin dei conti, cosa importa? E poi forse ciascuno ha qualcosa da ammirare o da invidiare all'altro. Il ventenne, l'esperienza del quarantenne; il quarantenne, la gioventù, i capelli ancora saldamente al loro posto, del ventenne.

Le donne, poi, sono donne. Inutile dirsi che questa ha l'età di tua figlia, se è carina pensi che è carina. Ma per fortuna c'è una serie di freni inibitori che impedisce l'esporsi troppo. Uno tra questi è la netta sensazione di un fiasco. Fiasco, poi… chissà? Magari lei non aspetta altro… Ma in dubio abstineas, come suolsi dire.

Ha capelli nerissimi e occhi chiarissimi. Un bel viso. Una voce un po' maschia, come anche il suo atteggiamento, così, diciamo, sguaiato. Comunque è una bella ragazza.

 

Luglio 1979. Ventidue anni non ancora compiuti. Sono in campeggio con una famiglia: marito, moglie, e i due figli dei quali sono amico. Vieste, Gargano, un vero paradiso. Loro hanno la propria tenda, io la mia.

Sdraiato sulla sabbia a prendere il sole, un sole che ti arrostisce anche se sei venuto da Roma già un po' abbronzato.

Alla mia sinistra, una ragazza mora. Occhi chiarissimi. Ci guardiamo. E io non distolgo il mio sguardo. Neanche lei. Poi, si sa, gli sguardi a un certo punto cessano. Ma ogni volta che il mio torna verso di lei incontra il suo.

Passerà un giorno, forse due, abbastanza per questo tipo di incontri: quando sei in vacanza tutto va accelerato. E ci troviamo a parlare, anzi, la ragazza membro della famiglia della quale sono ospite le ha già raccontato praticamente tutto di me; ma penso sia un po' gelosa. E' scritto infatti che se vai in vacanza con una famiglia la figlia te la devi scopare. Ma noi parliamo. Mi racconta che è di Terni e che ama molto il suo ragazzo. Lo ama sempre, si sentono al telefono. Un giorno andiamo a fare una passeggiata lungo la spiaggia, arriviamo quasi a perderci. Lei ha la mia età, forse un paio d'anni di meno. Da quella passeggiata non nascerà nulla. Non conosco ancora abbastanza le donne per capire che, più ti parlano del loro uomo, più desiderano che tu prenda la loro mano nella tua. M'era venuto in mente, sì, di fare delle avances, ma poi m'ero trattenuto… Ma come? Mi parla continuamente del suo ragazzo… Da me che vuole?

E se invece lo avessi fatto? Se avessimo fatto l'amore, quel giorno? Chi ci avrebbe visti? Il suo ragazzo? O la figlia dei miei amici, gelosa? E se anche m'avesse detto di no… Non starei lo stesso qui, a scrivere, a ricordare…?

Quante volte mi chiamò, quando tornammo ciascuno nella propria città. E quante volte mi disse di andare là, da lei, a Terni. Come amico, si intende… Ma certo. L'ultima volta mi disse: 'Guarda, io non ti chiamo più. Regolati: se vuoi venire, vieni. Ti aspetto'. Non credo aspetti ancora.

Ma lo abbiamo fatto, là, su quella spiaggia dove il sole ci batteva sulla schiena e non c'era nessuno? Cosa abbiamo fatto? Una passeggiata? Posso, vi prego, non ricordare? La mia memoria funziona bene, ma non bisogna mai ritenersi perfetti. Non so, confesso, non lo so. Io ricordo così, ma forse le cose potrebbero essersi svolte diversamente… Ecco, per esempio: uno dei due inciampa sulla sabbia e finisce addosso all'altro. L'altro lo sorregge, ma appena quello che era inciampato riacquista l'equilibrio, motivo giusto e sufficiente per lasciare la presa, il soccorritore no, non molla, anzi completa l'abbraccio; attende, forse invano, che l'abbraccio venga ricambiato - e non c'è età per questo, dagli zero ai cent'anni penso sia così -  e tenta di baciare. Un bacio, poi un altro, poi mille ancora, e nel frattempo il cuore pulsa più veloce, il corpo suda, la testa inizia a girare. La mano di lui comincia a cercare il seno di lei, sente il capezzolo gonfiarsi. Il bacio si estende al collo, agli orecchi, alle spalle… Alla fine, al seno. E le mani? Le mani fanno il suo, sia quelle di lui, sia quelle di lei. Forse tocca a lui prendere maggiore iniziativa, soprattutto a vent'anni, ma non ha importanza: tanto, si sta facendo quanto entrambi desiderano…

…Ma io non lo so, non so cosa sia successo quel giorno. Secondo me, nulla… Però non ricordo.

E non ricordo neanche il nome di lei, ricordo solo che mi telefonava… E che a un certo punto smise.

 

Io sono a questa cena e guardo questa ragazza. Capelli nerissimi, come chiarissimi i suoi occhi. Per la sua età potrebbe essere tranquillamente mia figlia. E faccio questo pensiero. Ma lei mi guarda, e quando distolgo lo sguardo per poi riportarlo su di lei mi accorgo che non ha smesso un attimo di fissarmi.

Vino, buono e meno buono. Maledetti osti della malora: vedete una comitiva, sì, una festa di compleanno, e ne approfittate per mescere chissà cosa. Tutti su di giri, cominciano i cori di Tanti Auguri A Te.

E quando sento la sua mano posarsi sulla mia in quel momento le luci sono spente, sta per avvenire la tradizionale soffiata di candele. Un bacio in fretta, prima che qualcuno riaccenda. Ma me lo ha dato lei, l'ho rubato io, ce lo siamo rubato?

Il bagno è fuori da questo ristorante, da questa casa colonica riadattata ai confini tra Veneto e Lombardia. Rapido, prima che torni la luce, la prendo per la mano, la porto fuori con me. La primavera qui ancora si fa attendere, ma non sentiamo freddo… Tutt'altro. Siamo entrambi alticci, sono tutti alticci. Mi gira la testa, suppongo anche a lei. Ci baciamo come due pazzi, non ricordo una passione tale da anni. Passione che ricambio, come non facevo da anni.

Potrebbe essere mia figlia.

Questo ritornello mi risuona in mente ma invano: continuiamo così, non ci interessa pensare, se pure lo pensiamo, che qualcuno potrebbe notare la nostra assenza, per poi dedicare un coretto anche a noi al nostro rientro, la mia bocca contornata del suo rossetto, il collo della mia camicia, idem. Gli occhi rossi di vino, tanto i miei quanto i suoi, le lingue frenetiche, inarrestabili, a cercare ogni angolo della bocca e del palato. E il suo collo, e i suoi orecchi. E ogni volta che la mia lingua esplora il suo condotto uditivo, ogni volta che gli incisivi mordicchiano il lobo, lei si serra più forte a me e sospira di piacere. Ora la mia mano scivola in basso, la sua vagina è umida. Prendo a toccargliela, cerco il clitoride ma in realtà non mi interessa trovarlo, dovunque la tocchi scateno una tempesta.

Idea: ho le chiavi dell'auto nella tasca dei pantaloni. La trascino, ma in realtà non la trascino. Lo credevo io: lei in realtà voleva questo. Protetti dai vetri, che si appannano quasi all'istante, consumiamo. S'è messa di spalle; la prendo così. Mentre la penetro le prendo il capo e la invito a un bacio, a dieci, a cento, mille baci. Vengo freneticamente, non pensavo che il vino ingerito me lo consentisse. Lei è venuta, ed era già venuta in precedenza.

Sigaretta.

Io non ricordo il nome di questa ragazza; probabilmente lei non ricorda il mio, o semplicemente non lo sa.

 

Torniamo dentro, dove nessuno bada a noi. Siamo all'amaro, alla grappa. Qualcuno accenna un canto, una ragazza ride, sghignazza, nessuno bada a noi.

Trovo un bicchiere che sembra pulito, lo riempio di qualche porcheria, bevo un sorso e lo offro anche a lei. Ma lei è già lontana, non fisicamente bensì con l'anima; sta chiacchierando con una sua amica.

La sento ma non la ascolto. O cerco di ascoltarla e non riesco a sentirla? Sta dicendo alla sua amica: 'Sai, mia madre, nel millenovecentottanta, io ero appena nata, da Terni venne a trasferirsi quassù…'

 



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Rispondi  Messaggio 2 di 8 di questo argomento 
Da: Peterpan® Inviato: 28/04/2013 16:42
...Chi avrebbe mai detto che dopo quasi 35 anni avrei avuto un altro amore ternano, del toro per giunta... mmmmmm...

Rispondi  Messaggio 3 di 8 di questo argomento 
Da: SidneyL Inviato: 28/04/2013 16:48
I corsi e ricorsi.
Dal Vico al vicolo dietro alla trattoria.
E la fatale Terni, già da allora...
 
E' un bel racconto, o Peter. :-)

Rispondi  Messaggio 4 di 8 di questo argomento 
Da: Peterpan® Inviato: 28/04/2013 16:56
Grazie, troppo.... bòna.

Rispondi  Messaggio 5 di 8 di questo argomento 
Da: Peterpan® Inviato: 28/04/2013 17:09
Questo, invece, è stato pubblicato su una pretenziosa rivista in distribuzione qui sul Garda; anzi, mi ritengo fortunato perché il direttore è davvero uno che...
Gli voglio mandare qualche sonetto de Roma mia, scritto da un amico caudato che non è molto alto ma comunque raggiunge alte mete (a fforza de carci)...

Al cimitero di Sovizzo 4.11.08

 

Io, in quel cimitero, non voglio più mettere piede. Almeno, non il primo di novembre; e neanche il due.

Trascorrevo là, in quel paesino nella provincia di Vicenza, estati calde, afose, a volte annoiandomi, e allora andavo in bicicletta fino a Montecchio per poi scalare la ripida strada che portava ai castelli di Giulietta e Romeo, o alla stazione di Altavilla-Tavernelle, sulla Statale 11 che tutti chiamavano la ‘Provinciàe’, a veder passare i treni; e c’erano le ‘stradèe’, le strade bianche, sostituite ormai da quasi superstrade. E il ‘giro-paese’, un po’ come le ‘vasche’ in uso presso altri centri, ma che qui era un circuito in quanto Sovizzo era costruito intorno al muro di cinta della villa Curti, e questo muro conteneva anche villa Rigoni. Entrambe figuravano nelle poche cartoline che il paesello metteva a disposizione. O altrimenti a pescare, in compagnia di ragazzi che abitavano fuori del paese, nei numerosi canaletti vicino alla loro casa. Parlavano un dialetto considerato rustico, e frequentarli, anzi il conseguente apprendere certi termini e certa pronuncia, mi rendeva oggetto delle canzonature dei miei cugini quando parlavo.

Non c’era neanche un giornalaio: i quotidiani li prendeva il fornaio, la fornaia anzi, la Mi(l)èna. Poi quel forno cambiò gestore, la figlia, Doriana, era proprio carina; e in seguito divenne sezione del PCI, ancora adesso se ne vede l’insegna sbiadita.

Vado al cimitero; vi riposa mia madre, che da Roma è voluta andare a tenere compagnia ai suoi genitori. Sulla lapide non c’è scritto Elisabetta perché tutti la conoscevano come Lisetta, e quindi questo vi si legge. In dialetto, poi, le consonanti sparivano: ‘De chi sito fio’o ti?’, mi domandavano le ‘vèce’. ‘De ‘a Iseta’. ‘Ah, quéa che ‘a sta a Roma?’ ‘Quéa, sì’.

Quanta gente; sembra uno stadio, non il posticino tranquillo, silenzioso, che mi faceva anche un po’ paura perché c’era il corridore ciclista morto a diciannove anni, e un paio di bambini che erano andati in tenerissima età, foto in bianco e nero con loro e la loro espressione malaticcia, vestiti di bianco; e delle tombe sulla nuda terra con delle croci arrugginite e inclinate dagli anni, dove era apposto un nome che si faticava a leggere. E quanti conoscevo, anche se, a leggerne nome e cognome, scoprivo allora, come mi capita di scoprire anche oggi, come questi andassero scritti: Bèsse in realtà era Bezze, ‘a Nineta Sandri si chiamava Marianna, ‘a Efa Genoveffa, Fernando Gaìna di cognome faceva Marchezzolo (ma tanto qui si dice Marchesó’o), la xia ìia, che mia zia poi non era bensì di mia madre e dei suoi fratelli, si chiamava Luigina.

Anche il cimitero ha pagato l’incremento demografico e ha dovuto dare il proprio tributo al cemento armato: allargato a dismisura, vi hanno costruito i soliti anonimi loculi, tre, quattro, cinque piani. Stanno piazzando altoparlanti per la messa che sentirò da fuori.

E fuori vado. E’ un pomeriggio di sole, tiepido, che il mattino nuvoloso non aveva certo lasciato immaginare; sono le tre e mezza del pomeriggio e l’Astro cala lasciando un lato delle colline all’ombra, e in modo straordinariamente nitido, preciso, rispetto alla parte ancora soleggiata; l’autunno offre tutti i suoi colori. In alto, Sovizzo Colle, che ho sempre e soltanto sentito chiamare Sovisso Alto; dietro, Sant’Urban (o SS.ma Trinità, confondo sempre quei minuscoli borghi). Ma immediatamente davanti a me i lavori dell’ultimo decennio: l’irregimentazione di un fosso, il Mezzaruolo meglio noto come Smerdaró’o, accanto al quale una volta vidi un pezzo di ferro arrugginito, semisepolto, del quale affiorava dal terreno qualche centimetro, tra questo fosso e un campo di sorgo. Tirai e non voleva venir via; alla fine la vinsi io e mi ritrovai in mano una baionetta di chissà quale guerra. Ma il campo di granturco non c’è più: c’è un parcheggio, più il là il campo da calcio, più in là ancora, e già siamo sulla strada per Sovisso Alto, la piscina comunale. A sinistra del parcheggio lo Smerdaró’o è scavalcato da un ameno ponticello: una pista ciclabile che finisce anch’essa sulla strada pa’ ‘nar su a Sovisso Alto.

E il ponticello, e quel che vedo della pista, e il parcheggio oggi pieno di automobili, non possono non ricordarmi di due mesi fa, dell’ultimo fine settimana di agosto, quando, trepidante ma senza darlo a vedere all’interessato, qui scorrazzavamo, lui con la sua biciclettina, io con una rimediata, ché tanto nella casa, un tempo dei nonni, una bici c’è sempre stata. Per due giorni di seguito siamo andati là, e anche ovviamente in piscina; per due volte di seguito è voluto entrare al cimitero a salutare ‘la nonna Lisetta che sta in cielo’. Si piazzava davanti alla tomba, si faceva il segno della Croce alla maniera ortodossa, e recitava testualmente la preghiera che meglio rammenta: ‘Angelo di Dio che sei il mio custode illuminami e custodiscimi reggimi e governa me che ti fui affidato dalla mia Pietà Celeste amen’. E a me spuntavano le lacrime mentre sorridevo.

Ma oggi sto male. Mi vengono pensieri empi, eretici, nel trovarmi di fronte alla morte. Mi viene da chiedermi che senso abbia tutto: ci mettono al mondo, noi facciamo altrettanto. E’ un ciclo, certo. Però immagino il momento nel quale esalerò l’ultimo respiro, e il momento quando toccherà ai figli che ho concepito. Anche a loro toccherà, sì. Messi al mondo per morire. Il prete parla di resurrezione, ma intanto la persona che se n’è andata non c’è più: solo questo ci è dato toccare con mano. Ci incontreremo tutti di là? Chi crede pensa di sì, anzi, ne è certo. E chi non ha il cosiddetto, e certo consolatorio, dono della fede? Ci vede, si vede come polvere che polvere ritorna.

E questi pensieri si mescolano ai ricordi, belli e brutti, di parte della mia vita trascorsa qua, alle estati della mia infanzia e di parte della mia adolescenza trascorse quasi tutte qui, in questo paesello dove adesso c’è anche un rivenditore di pianoforti e supermercati a iosa. E a tutta la mia vita, in fondo.

La messa sembra non voler terminare. Passa mio cugino, giusto una pacca sulle spalle perché non era molto che non ci vedevamo; entra spedito, io lo seguo per qualche passo ma poi ci ripenso e torno fuori. Accendo un’altra sigaretta.

Ma è tutta questa gente, tra la quale molti che riconosco ma che non ho voglia di salutare, almeno qualcuno di essi - non li avevo in simpatia una volta, perché dovrei averli adesso? E’ tutta questa gente che mi dà noia, o che comunque, per quanto inconsapevolmente, contribuisce al mio malumore.

Tornerò al cimitero, ma da solo o con il bambino, per sentirlo recitare di nuovo ‘…illuminami e custodiscimi reggimi e governa me che ti fui affidato dalla mia Pietà Celeste amen’.


Rispondi  Messaggio 6 di 8 di questo argomento 
Da: SidneyL Inviato: 28/04/2013 17:36
Questo è rapido, commovente, dettagliato, rabbioso e nostalgico.
Io lo leggo così.
E mi piace più dell'altro.

Rispondi  Messaggio 7 di 8 di questo argomento 
Da: Peterpan® Inviato: 28/04/2013 19:51
Il primo mi venne in mente come una folgorazione: erano i primi tempi che frequentavo il Garda e la madre di Pico o insomma entrambi e due, e una sua amica era davvero molto simile a questa ragazza che avevo conosciuto sul Gargano 24 anni addietro; la cena s'era tenuta davvero, in un casale tra Desenzano e Sirmione, era veramente la festa di compleanno di una trentenne.
Ho voluto provocatoriamente inserirvi un accenno incestuoso, che però vuole rendere contemporaneamente l'effetto della casualità (essendo chiaramente involontario), dei destini che s'incrociano e forse, vichianamente, della storia che si ripete, quantomeno la propria storia personale, con simili esperienze e simili errori. E poi non specifico se si tratta davvero di un incesto o di una combinazione di somiglianze e di tempistiche, lascio giustamente al lettore...

Il secondo... hai ragione, è un po' il riassunto, volendo, della mia scheda psicologica... 

E a proposito di finali che non finiscono, poi la pianto vabbe', beccati anche questo:

VIA AURELIA, KM. 17+800

 

Quanto mancherà, puttana Eva, a Roma? Sei mesi che non vado giù, e neanche mi mancava. O forse un po’ sì. Ma tanto sto un giorno solo, non avrò neanche il tempo per accorgermi se così era: avrò solo il tempo di bestemmiare il traffico mondiale. Ecco quel pezzo noioso prima di Civitavecchia. Questa benedetta Aurelia, quando la allargheranno anche in questo tratto? E poi non posso fare follie, questo furgone non è un’auto da corsa; è un furgone e basta. Centonovanta euro per una giornata, poi devo anche fargli il pieno prima di restituirlo? Credo di sì. Ma almeno prendo tutto, proprio tutto. Quanti anni sono che la cantina dei miei è invasa di roba che mi appartiene? Tanti; da una vita, si può dire. Cambiavo casa, partivo, in una non c’era posto, un’altra l’ho venduta prima di finire di sistemarla; insomma, per un motivo o per l’altro libri, scartoffie, anche capi di vestiario… E fotografie, fotografie di tutto me. In quella cantina c’è la mia vita. E forse per questo non l’ho mai svuotata. Simbolo, forse, di un attaccamento non invecchiabile alla casa paterna? Può darsi. Lasciare qualcosa là; ma io ho lasciato molto, là. E adesso vengo a riprendermelo. C’è per forza un’età nella quale devi chiudere? E qual è? Io ancora non lo so; so che le cose vanno avanti da sé, a volte mi par d’essere lo spettatore di me stesso, delle mie azioni, dei miei stessi pensieri. E vedo le cose andare. E le cose che sono in quella cantina, le vedo che andranno. Perché non tornerò più a Roma, come abitante, almeno. Ora sto qui e ci resterò. Lo zingaro ha trovato casa. O forse vorrò morire in Istria, mi piace ma non è solo questo: io in qualche modo appartengo a quei posti. O forse la dolce Liguria me ne sarà surrogato, in fondo il paesaggio è simile, mare e monti, monti e mare, muretti a secco, paesini con i loro campanili tutti uguali. Soltanto un tantino più dolce: l’Istria è selvaggia, estrema.

 

Pensare aiuta a guidare. Questo motto verrà stampato, un giorno, su targhe che incolleranno sopra l’ingresso degli uffici della Motorizzazione, in tutta Italia. O quantomeno a La Spezia. Forse verrà stampata anche la firma dell’autore di questa frase così poetica, importante almeno quanto altisonante. Ecco infatti l’autostrada di Civitavecchia, adesso posso dire quasi di essere arrivato. Ho passato varie Maremme: Maremma Majala, Maremma ‘Ane, Maremma Bu’ajola. Settanta chilometri; cosa saranno mai? E finalmente la carreggiata larga, a due corsie. Posso sorpassare. In men che non si dica giungo all’uscita di Torrimpietra. Riprendo l’Aurelia, che qui però è superstrada, si va che è una bellezza, tranne le domeniche d’estate perché la gente va al mare. E allora la mattina sono ingorghi verso nord, la sera verso sud. Ma questa è un’ora buona. Si avvia all’imbrunire; i miei, al mio arrivo, avranno già cenato, figuriamoci. Mangerò un boccone.

 

Perché mi è arrivato così vicino, questo? Ah, ora mi sorpasserà. Stava aspettando un’altra auto che sopraggiungeva. No, anzi, non l’aspetta: esce come se la corsia di sorpasso fosse libera. L’auto che stava arrivando è costretta a frenare, poi il conducente gli lampeggia e dà anche un colpettino di clacson. Il cretino rallenta, non ha ancora finito di sorpassarmi; rallenta come in gesto di sfida. Cretino. Sì, educazione stradale: da dentro l’auto comandi il mondo. Arrembaggio, via, sotto. O che sia io la causa del mancato sorpasso? Rallento, rallento tanto che a questo punto il tratto di corsia davanti a me si rende sgombro. Ora l’aspirante pilota di Formula 1 può rientrare, se vuole. Ma ancora non sembra averne intenzione. L’auto che gli sta dietro a questo punto prova a sorpassarlo sulla destra, il tipo se ne accorge e stavolta rientra. Il guidatore frena di nuovo e freno anch’io per questioni di distanza di sicurezza. A vederlo così, quest’ultimo, si direbbe un tipo sulla cinquantina; la sua macchina è una potente Porsche, e forse è questo che ha destato il senso di competizione del coatto sulla vecchia Golf comprata a rate all’automercato più vicino esibendo la prima busta-paga. Ma il guidatore della Porsche non è uno sprovveduto e inoltre sembra andare di fretta, non ha tempo da perdere con l’idiota di turno. Da un gesto del suo braccio destro capisco che scala marcia; un rombo degno di un reattore, una veloce uscita sulla corsia di sinistra ed avviene il sorpasso. Nessun gesto da parte sua, che so, sporgere la mano sinistra fuori per mostrare il dito medio teso. Io forse lo avrei fatto; forse, no. Tira perbene la marcia, cambia, il bolide dà idea che presto scomparirà alla vista. Il tanghero, sorpreso e punto nell’orgoglio, strombazza e prova ad accelerare. Ha un Diesel, si capisce un po’ dal rumore, un po’ dalla fumata nera che però rimane fine a sé stessa: non riesce a distanziare neanche me, che pure me la sto prendendo relativamente comoda. Un chilometruccio di cortina fumogena e il cretino rinuncia; la Porsche è ormai un ricordo lontano. Antinebbia anteriori accesi, l’ho visto mentre mi sorpassava; a cosa servono quando la nebbia non c’è? Di notte, ad abbagliare inutilmente chi si incrocia; di giorno, come anche di notte certo, sono ulteriore affermazione di potere. Cento e più adesivi incollati al portellone posteriore, parafango scorticato da imperizia nelle manovre di parcheggio, enorme coda con i colori della squadra poggiata sul pianale, stessi colori in un ciondolo appeso al retrovisore interno. Sì, è proprio il coatto per definizione. Ora faccio caso anche al taglio di capelli: rapati tutt’intorno a una cucuzza dove invece sono tenuti su da qualche gel, a dare a quella testa di cazzo, questo da intendersi metaforicamente ma anche nel senso fisico della forma di quel capo vuoto, l’aspetto del verme solitario, della tenia. Ma anche qui restiamo sul classico, sarebbe stato da stupirsi se l’acconciatura fosse stata qualcosa di normale.

Ecco una macchina che va pianino. Anzianotto, il guidatore. Certo che anche questi… Qui è una superstrada, nonostante i limiti di novanta all’ora si può andare anche sui cento, centodieci, e non mi pare, al lume della mia lunga esperienza al volante, che una velocità tale pregiudichi la sicurezza. Ma ti trovi davanti all’improvviso queste lumache e allora quanto ho appena detto acquista un valore pericolosamente relativo… Il nostro stupidino dalle belle speranze esce, come prima, senza minimamente curarsi di un’altra auto che sta sopraggiungendo. Nuova frenata, stavolta colpo di clacson più lungo. Il tanghero alza il braccio come per mandare il conducente dell’altra auto a quel paese, l’altro non mette a tacere il clacson, lampeggia, si porta quasi a toccare la vecchia Golf sbuffante nella salita. Nuova scena simile alla prima: il golfista non lascia strada, ma stavolta l’altro guidatore con un guizzo veramente da manuale lo scarta, lo marca come durante un incontro di calcio, lo sorpassa a destra, a sua volta alza il braccio vindice, e anche lui scompare in breve. Il cretino, con calma e con comodo, rientra.

Cinque auto in corsia di sorpasso. Il tipo ne sorpassa quattro a destra e poi si infila tra la prima della fila e la seconda. Gli stop della seconda si illuminano. Ma così facendo ha superato un’altra auto che se ne andava lemme, oltre a quattro delle cinque che già la stavano sorpassando. Le è andato sotto e poi è uscito sulla corsia di sinistra; padrone della strada. Che si chiami Aurelio? La prima della fila, una cabriolet, è guidata da una donna, a giudicare dalla lunghezza della chioma; anche dalla maglietta senza maniche. Il coatto le strombazza a più non posso. La donna quasi taglia la strada all’auto che ha appena finito di sorpassare per cedergli il passo; alza un braccio come a dire ‘Che modi’. Il nostro amico la sorpassa, fissandola come per invitarla a scendere per regolare i conti, e rientra bruscamente; la donna altrettanto bruscamente frena, e frena anche il conducente dell’auto lemme lemme. Il tanghero scala marcia, lo si capisce di nuovo dalla fumata nera, e guadagna qualche metro. Nel frattempo io mi sono accodato agli altri che sorpassavano e in breve l’auto lemme lemme è superata. Rientro.

Quel cretino adesso ha rallentato e si è lasciato sorpassare da quelli cui prima aveva tagliato la strada e dalla donna in cabriolet, che comunque s’è guardata dal fare gesti strani all’indirizzo del pilota. Che sia un collaudatore? Questo spiegherebbe le variazioni di velocità. Collaudatore di Golf da rottamazione e dei relativi impianti antinebbia: un mestiere!

 

Non manca molto a Roma, siamo al diciottesimo chilometro della SS1, la via Aurelia, la strada che portava i Romani fino in Francia se non oltre; ora comincerà la conta a scalare degli ettometri, IX 17, VIII 17, VII 17 e così via fino al diciassettesimo. Più o meno dal chilometro 22 in direzione di Roma c’è ancora un tratto della vecchia strada; ha lasciato la nuova deviando a sinistra appena dopo il bivio per Fregene; striscia per le dolci valli della zona, passa un borgo abitato, credo, da non più di dieci persone, Castel di Guido, e poi si reinserisce sull’attuale superstrada, al quattordicesimo circa. Il diciassette numero nefasto? Non saprei; però, qui, prima che installassero la barriera di cemento, il cosiddetto New Jersey, quando c’era ancora soltanto la doppia striscia continua, vidi due lenzuoli che coprivano altrettanti cadaveri. Un frontale, uno dei tanti. E inoltre qui non funzionano i telefonini, c’è una zona d’ombra, evidentemente, tra una cellula e l’altra. Questo diciottesimo chilometro è un falsopiano che passa la pietra miliare numero appunto diciotto e continua in salita fino al diciassettesimo, dove, sempre in direzione di Roma, c’è un distributore; la strada subito dopo va in discesa. Nessuna uscita se non, per chi proviene da Roma, un’area di servizio proprio all’altezza della pietra miliare numero diciotto. Che poi pietre non sono ma cartelli metallici, pazienza. Guard-rail su tutta la parte destra tranne in un punto minuscolo, tre o quattro metri, qui sulla carreggiata in direzione di Roma.

 

Io non so cosa accada, sono quegli attimi nei quali stenti a mettere in moto il cervello, avviene tutto così in fretta che non hai tempo di pensare, di renderti conto. Ma sta di fatto che il coatto con la sua ansimante Golf, che sta perennemente davanti a me, infila, per motivi che sono lungi e lungi sarò anche in seguito dal comprendere, infila proprio quel buco. La fiancata sinistra urta il guard-rail dove questo riprende e ciò fa compiere alla sua auto un mezzo giro verso sinistra; ma la macchina è lanciata e prosegue, derapando sul fianco destro, verso la campagna. L’istinto mi porta a frenare. Dove non è arrivato il ragionamento sono arrivati l’istinto e, forse, l’esperienza alla guida. Mentre rallento mi porto sulla corsia di emergenza. Appena fermo inserisco la retromarcia e, veloce ma prudente, mi porto fino a quell’apertura. Non sta passando nessuno; deserto. Imbocco la stradina sterrata e appena dentro spengo il motore e scendo. Non vedo l’auto del coatto. Guardo meglio e contemporaneamente, affidandomi a mie del resto inesistenti esperienze in campo balistico, ah sì, qualche partita a biliardo, sempre più rara, cerco di calcolare dove possa essere finita la Golf. Erba alta spianata dal passaggio dell’auto. Un dosso che sembra fatto di calcinacci scaricati abusivamente, alto sui tre metri. Reca segni di strusciata. Salgo su quel dosso. Al di là, una scarpata al fondo della quale scorre un ruscello torbido. La Golf è lì.

 

Rovesciata su un fianco, l’acqua del rio la sta lambendo. Scendo. Il tanghero, che ovviamente non aveva la cintura di sicurezza allacciata, è finito dalla parte del passeggero, la stessa sulla quale è adagiata la sua macchina. Dev’essere svenuto, morto, non so. Comunque non dà segni di vita. Il parabrezza non c’è più, eccezion fatta per qualche coccio che pende dalla cornice. E da quest’apertura sta entrando acqua, l’acqua del fiumiciattolo. Un ruscelletto innocuo, che credo conosca un momento di gloria soltanto in occasione dei violenti temporali che usano scatenarsi da queste parti, quando il cielo, gonfio, non ne può più e apre allora le cateratte, con la stessa violenza di quando si spacca una diga. A volte tocca fermarsi per quanto è fitta la pioggia. Ma anche adesso, per lo sbarramento creato dalla Golf, a monte di questa il ruscelletto sta crescendo e invade, invade l’abitacolo. Sarà morto, questo idiota? No, non ancora almeno: sento una specie di rantolo. Lui però rimane immobile. A guardar meglio vedo che respira. Ha sangue sul volto, non vedo però la ferita. Dettaglio poco importante, e poi magari sarà un graffio. E lui rantola, ansima. L’autoradio funziona ancora, manda musica tecno o qualcosa di simile. Anche qui nulla da stupirsi. La spengo. E l’acqua sale. Corro su al furgone e prendo il telefonino. Qui, come per miracolo, c’è linea. Strano: sulla Via Aurelia no, qui invece, appena sopra questa piccola gola dove scorre il minuscolo corso d’acqua, sì. E anche quando scendo vedo che il segnale rimane, anzi, aumenta. Devo chiamare il 113, o il 118, adesso non mi viene in mente e in ogni caso, se sbaglio numero, mi correggeranno loro. Omissione di soccorso: questo sarebbe il reato del quale mi sarei reso colpevole nel caso non mi fossi fermato. Anche se, in realtà, non sto facendo nulla. Anche se, in realtà, in quel momento non stava passando nessuno. Cicale cantano, cantano, cantano. L’avena selvatica, secca fin da giugno, fa da cornice alla scena. O il 112, i Carabinieri? O il 116, l’ACI? Ma no, che c’entra l’ACI? Caso mai lo chiameranno i soccorritori…

Il tanghero rantola, rantola ed ansima. Ora ha gli occhi aperti, i nostri sguardi si incrociano. Non distolgo il mio, non distoglie il suo. Ma mi starà guardando? O è soltanto una mia impressione? Sarà cosciente? Tatuaggini e tatuaggetti lungo il suo braccio sinistro, l’unico che posso vedere. L’orecchio sinistro bucherellato e orpellato di pendagli. Tutto secondo copione, insomma. Che faccia da stronzo… ma anche questo era, come dire, inevitabile…

Ma sarà stato un bambino anche lui? Come saranno stati i suoi primi sorrisi? E quando ha imparato a reggersi sulle gambe sua madre gli avrà sorriso dolcemente oppure saranno state tutto il giorno urla, strattoni, insulti e frasi secche berciate nel più truce volgare romanesco, e perenni silenzi del padre interrotti solo da bestemmie o da discorsi sulla Roma o sui politici che quelli pensano solo a magna’ e se ne fregano…? Piccoli, sono piccoli i bambini… Fanno tutti le stesse cose: pappa, cacca. Poi cominciano a farfugliare mentre cercano di erigersi sulle gambette. Poi cominciano a capire, non più soltanto il tono, ma anche le parole, e cominciano ad usarle… Poi vanno all’asilo. Piangono. Poi tornano a casa. Piangono. Perché piangono i bambini? Chi s’è permesso di spegnere il loro sorriso?

L’acqua all’interno dell’abitacolo sale. Lenta, ma sale. Si sente il passare veloce delle auto sulla Statale: nessuno sa, nessuno potrebbe sapere. Cento… tredici; ora premi il tastino verde, quello con una cornetta di telefono disegnata sopra. Dirai che ti trovi sull’Aurelia, al diciassettesimo e ottocento circa, direzione Roma. Sbrigatevi, io non lo tocco, non si sa mai: avesse una lesione alla spina dorsale - chi se la prenderebbe ‘sta responsabilità? No, cancello. Meglio quest’altro. Uno… uno… otto. No, ma forse il 113… L’acqua sale. Allora: Uno… uno… tre. Cancella. Al posto del tre, un bell’otto. L’acqua sale. Il cretino rantola, ora mi sembra abbia emesso anche una specie di gemito, forse rivolto proprio a me. Rimane immobile, l’acqua sale; adesso, vedo, gli lambisce la spalla destra. Cicale cantano, cantano, cantano. Qui, tranne il sottoscritto e lui, non c’è nessuno. Se salgo nel furgone e me ne vado nessuno saprà mai nulla. Cancello l’otto, digito un tre. Come mai l’otto non è divisibile per tre? E uno più uno più tre dà cinque, mentre uno più uno più otto dà dieci. E dieci è il doppio di cinque. E la targa della Golf? Allora: Roma 4F2496, ancora le targhe vecchie, quelle progressive e con la sigla della provincia. Ma noi Romani non avevamo solo la sigla, il nome della città era scritto per intero! Allora, dividiamola in due parti: 4F2 = 496. Bisogna trovare il valore di ‘F’. Questo giochetto lo facevo sempre quando abitavo a Roma e passavo incalcolabili ore nel traffico. F = nove per sei diviso due, le due cifre ‘4’ le ho semplificate, tanto, stavano sia da una parte che dall’altra, cosa ci cambia un ‘quattro’? Cinquantaquattro diviso due fa ventisette, ed ecco trovato il valore della ‘F’. Bravo! Ma potevo anche semplificare il sei con il due, e della complicata equazione mi sarebbe rimasto un semplice F = 9 X 3, sempre ventisette, che bello! Avessi voluto lasciare i quattro… Ma che mi frega, adesso, di calcolare a mente cinquantaquattro per quattro; a sinistra, vabbe’, quattro per due fa otto… Ma saranno le otto e mezzo? I miei non mi aspettavano per cena, ma da loro ci sono, in visita, anche i miei due figli più grandi, carini, amori di papà, per un genitore restano sempre piccoli. Tutti abbiamo un genitore. Uno… uno… tre. No: uno… uno… otto. O è il 115 che bisogna chiamare? No, quelli sono i pompieri. Metterla in musica? Quattròeffedue… zan… zan… quattrònovesei… Sì, sulla melodia di ‘Sapore di sale’… Però mi sballa l’accento di entrambi i ‘quattro’. Non importa. Sapore di sale; l’acqua sale.

           

Lieve gorgogliare di un anonimo ruscello, anzi, qui si chiamano ‘marane’, come ho potuto scordarlo? O forse sarebbero ‘marrane’, come a dire ‘lestofanti’, senonché la ‘r’ doppia nel romanesco non esiste? ‘Marrano’ è un termine di origine spagnola, sta scritto sul Migliorini - Baldelli, ‘Breve storia della lingua italiana’. E poi ti devi sbrigare: se aspetti troppo a chiamare i soccorsi potrebbero dire che hai perso troppo tempo, lo potrebbero dedurre dalla portata - esigua - di questa ‘maranella’. Direbbero che lo hai lasciato affogare. Però io risponderei che sono stati loro a tardare, chissà come andebbe a finire, Signor Giudice, io ho fatto solo il mio dovere…

Uno… uno… tre? L’acqua sale. Uno… uno… otto? Uno… uno… due? E’ un essere umano… Da piccolo sorrideva anche lui.

 

…Io, poi, devo prendere l’abitudine di portarmi dietro un miniregistratore. Sì, perché mi vengono idee che passano per un attimo e non tornano più. Questa, per esempio: lui capì che l’altro aveva fatto ‘piedino’ a sua moglie sotto il tavolo del ristorante perché questi, entrando, aveva pestato senza accorgersene una merda e sua moglie aveva caviglia e polpacci insozzati… Ecco, a svilupparla questa sì che sarebbe una storia…

 

Cicale e ronzio delle auto che passano veloci sul diciassettesimo chilometro della Strada Stradale anzi no Strada Statale Numero Uno, la Via Aurelia, quella che portava i Romani fino in Francia se non oltre. Nessuno vede, vedrebbe (vedrà?).


Rispondi  Messaggio 8 di 8 di questo argomento 
Da: SidneyL Inviato: 28/04/2013 20:46
E questo è ...
E questo, è.


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